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Granfondo Stelvio Santini 2023: anche la pioggia sembra più bella quando splende il sole

Carlo Brena

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Santini

Cronaca di una pedalata bagnata che ha guidato il protagonista del nostro racconto alla ricerca di dettagli e particolari che trasformano una giornata infausta in qualcosa da ricordare, con la rassegnazione che di fronte alla ineluttabilità della natura, nulla, nemmeno la Granfondo Stelvio Santini può cambiare gli eventi.

Siamo seduti su delle incerte panchine di legno, come quelle delle feste di paese. Siamo alcune decine di ciclisti bagnati come pulcini, seduti tutti intorno a dei grossi tubi che sembrano tentacoli di un enorme octopus che soffia aria calda su disperati esseri umani in cerca di un cenno di vita. Se non fosse per i sorrisi dei protagonisti, si direbbe un girone dantesco. Chi non ha trovato posto è accovacciato vicino al bocchettone dell’aria calda nel tentativo di far asciugare le proprie scarpe, bagnate fradice come l’anima di ognuno di noi.

E pensare che ieri pomeriggio, proprio poco prima di entrare al Pentagono per ritirare il pettorale, sembrava che il cielo volesse suggerirci una intima confidenza sulle condizioni meteo delle successive 24 ore, una sorta di anelito pensiero rassicurante sulla bontà della giornata di gara: certo, non aspiravamo al caldo caraibico, ma nemmeno da tempesta tropicale. L’indomani, cioè questa mattina, Bormio e tutta l’Alta Valtellina hanno svelato il proprio volto montano, dove più che i desideri sono le nuvole a comandare. Alla partenza, con i cirrocumuli pronti a scaricare acqua sulla Tellina terra che ci ospita, i ciclisti mal celano il triste destino che consapevolmente li aspetta: «Tu ce l’hai la mantellina antipioggia?» chiede il mio vicino in griglia a uno sconosciuto collega di una bici più avanti, quello si gira, sorride e risponde: «No, ma ho l’ombrello». Odio l’umorismo alle 6 della mattina.

Dal nulla spunta un bel ragazzone di una trentina d’anni che tiene tra le mani la maglia ufficiale della Granfondo Stelvio Santini 2023, ben aperta sporgendosi esternamente in favore del soffio di aria calda come un torero impugna la muleta per sfidare la bestia avversaria nell’arena. E pensare che non sono nemmeno las cinco de la tarde. In lontananza, una ragazza entra nel capannone che ai 2700 dello Stelvio sembra una reggia e si fa largo tra la folla alla ricerca di qualche centimetro quadrato davanti a una presa di aria calda: la riconoscono degli amici che, al suo apparire, urlano come eccitati studenti di Cambridge. Sono inglesi, lo capisci da due cose: quell’accento così preciso ostentato come unici proprietari della lingua universale, e dal fatto che pochi di loro hanno con se una mantellina antipioggia. Non sono pochi quelli che hanno pedalato in questa giornata di pioggia torrenziale con la sola maglietta ufficiale della granfondo; i più prudenti con uno smanicato.

La partenza della Granfondo Stelvio Santini è un gioco di prudenza: i primi chilometri sono in discesa e la regola numero uno per gente come me è mantenere la distanza di sicurezza dai propri simili. Stare in gruppo non è cosa da tutti, tanto meno starci quando ti sei svegliato da meno di un’ora. Dopo 15 minuti di pedalate sciolte le prime gocce sugli occhiali che ben presto diventano sempre più intense. Quello della mantellina alla partenza lo vedo fermo a bordo strada impegnato nella vestizione, la Paola con cui farò l’intero tracciato, suggerisce un pit stop per fare la stessa azione: «Meglio mettere la giacca adesso che siamo asciutti che dopo quando siamo ormai bagnati». Saggezza femminile. Riprendiamo a pedalare, e riprendo a sentire le gocce in faccia. Tra poco anche i piedi sentiranno fiumi di acqua entrare a riempire spazi vuoti tra i plantari.

Lascio le mie scarpe in pole position davanti al bocchettone dell’aria per andare a piedi scalzi verso il tavolo del ristoro dove comunico a gesti a un energumeno volontario la richiesta di aprire il sacco bianco del mio ricambio, bloccato dal nodo che questa mattina ho pensato bene di fare stretto, molto stretto. Le dita congelate, la perdita di sensibilità e anche la debolezza fisica mi impongono di chiedere aiuto all’omone, il quale capisce la situazione, mi mostra le sue dita tozze e nodulose come un ramo di olmo e risponde: «Qui serve una donna…» e tac, eccola lì la bella trentenne che appoggia sul tavolo la brocca del tè caldo e si prende cura del nodo della mia sacca. Dalla mia mandibola ghiacciata (mi succede sempre quando ho freddo…) emetto un verso che in origine doveva essere un ‘grazie’: la volontaria mi guarda, impietosita, sorride e grida ad alta voce: «Qualcuno vuole tè caldo…».

Io il tè caldo l’avrei voluto in cima a quella maledetta salitella di Sondalo: un muro di Huy, messo lì dall’organizzazione più per dispetto che non per ragioni agonistiche. È un dritto per dritto al 16% o forse più, chissà, che in cima svolta a sinistra dove il bar Cardoni schiera in terrazza i primi avventori dell’aperitivo domenicale: non sono nemmeno le 8 del mattino e intravvedo dei gran calici. Due curve morbide, un paio di tornanti e saluto gli Alpini a bordo strada: «Heilà, bondì…». Io li saluto tutti gli Alpini, perché l’idea che una persona si alzi presto la domenica mattina per presidiare il percorso dove io potrò lussuriosamente bagnarmi da capo a piedi, beh a me fa muovere tutta la mia stima per lui. «Heilà, Alpino…bondì». Saluto le penne nere e dal giro di boa facciamo rientro a Bormio.

Quando incrocio Paola che nel frattempo era andata a cambiarsi nel quadrato rosso protetto e riservato alle donne, mi sembra di vivere una scena da ritirata dalla Russia: deambula dispensando sorridi avvolta in una coperta di lana che avrà trovato grazie a qualcuno di quei sorrisi. Ha le punte dei piedi fredde, le dita che virano verso il blu. Prendo le sue scarpe e le posiziono davanti al bocchettone d’aria calda dove nel frattempo il matador si è messo a dorso nudo cambiando il drappo davanti al toro con la maglietta intima. Penso a quando sarà il turno dei pantaloncini da asciugare.

Il passaggio a Bormio dopo 40 chilometri è lento e riflessivo, ma anche ricco di una sorpresa: il lastricato sotto le nostre ruote è asciutto, segno che nel Contado non ha piovuto, e questo potrebbe essere un buon auspicio. Potrebbe, condizionale. Intanto però, ci aspetta il primo ristoro. Abbandono la bici su un muretto e mi dirigo verso un vassoio con panini e bresaola che bagnerò con della splendida Coca Cola d’annata. Riempio la borraccia di sali, perché anche se non fa caldo, il sudore non si interrompe e i crampi sono pronti a far saltare i nervi. Mangiare diceva ieri la nutrizionista Elena, mangiare e bere, e io seguo i consigli di chi ha studiato la materia: due crostatine, albicocche, un panino col prosciutto e poi il formaggio tagliato a blocchetti, ci sono le fragole e ancora le mezze banane. E non vuoi farti ancora una bresaola?

Nel tubo d’aria di fianco al mio ci sono due ragazzi altoatesini che si rivolgono a me in italiano: uno ha le gambe bianche e sottili come due grissini, l’altro ha le cosce che sembrano due pani di Altamura. Alla sera, Mario (deus ex machina dell’organizzazione) mi dice che i riscaldatori ad aria sono stati collocati anche sulla discesa del Mortirolo, così tanto per dire il livello di attenzioni. Intanto la compagnia si allarga con un ventenne che fa spazio sulla panchina della festa dell’Unità a un parente o a un amico di famiglia: il ragazzino non smette di parlare, tutto eccitato per il suo primo Stelvio che non vede l’ora di postare su Instagram non appena trova una ricarica (il freddo ha ammazzato la sua batteria), mentre il pro-zio (sì, secondo me è un parente alla lontana…) lo osserva con un risolino bloccato da una paresi facciale. Il pronipote mentre va al tavolo per fare il pieno di tè caldo da portare al consanguineo non smette di parlare, e io incrocio il mio sguardo con quello del prozio: «Eh gioventù…» è tutto quello che è riuscito a dirmi.

Lo Stelvio è terribilmente lungo, una ventina di chilometri di solitudine se lo fai da solo nei tuoi pensieri, ma diventano 20mila metri di chiacchiere se lo fai in due. Una ascesa che diventa persino un confessionale, come una strada clericale dove le parole vanno dosate con calma, una ad una, ponderate in base al fiato disponibile. Si spazia dai figli che crescono alla tiroide sotto controllo, dalle sfide del lavoro …all’acqua che entra nelle scarpe. Avvolti nelle nubi che vedevamo così lontane quando eravamo giovani e belli a Bormio, ora, io e Paola abbiamo l’obiettivo del secondo e ultimo ristoro a 7 chilometri dal traguardo. Lo vediamo in lontananza come un miraggio, un insediamento da cui esce fumo prodotto da un braciere che scalda i volontari ma soprattutto quelli che indossano solo la jersey ufficiale e, qualcuno con il gilet. Oltre al tè caldo c’è anche il vin brulè, che per taluni è una valida alternativa. “Chi desidera vedere l'arcobaleno, deve imparare ad amare la pioggia” ha scritto Paulo Coelho, e noi gli crediamo sulla fiducia, perché è quella che serve oggi.

La ragazza bionda seduta per terra si pettina i capelli frustandoli con le cinque dita aperte davanti al bocchettone dell’aria calda, come fosse il phon dell’albergo. Ora il capannone è un concentrato di umanità di varia natura: una torre di Babele ciclistica dove senti decine di lingue diverse, perché in questa edizione della Granfondo Stelvio Santini gli stranieri hanno superato gli italiani. Nel frattempo, giunge la notizia che l’organizzazione ha bloccato l’accesso dei concorrenti del tracciato lungo allo Stelvio, bloccandoli a Bormio. Decisione che si rivelerà saggia e opportuna: le condizioni meteo peggiorano sempre più. E mentre penso a coloro che obtorto collo hanno dovuto arrendersi al Re Stelvio, sfilo dalla sacca il mio completo da scialpinismo totalmente impermeabile e salgo sulla bici, per la discesa più bagnata e freddolosa della mia giovane carriera di ciclista sessantenne.

Quando vedo il cartello Bormio mi dico che devo ricordarmi di mandare una mail di ringraziamento a chi dell’organizzazione ha pensato ai bocchettoni d’aria calda.

Carlo Brena
Nato nella seconda metà del secolo scorso, per dare un senso alla sua vita ha deciso a 30 anni di fare il giornalista sportivo, e da allora ha iniziato a invecchiare precocemente, ma anche felicemente. Fondatore di LDL COMeta agenzia di comunicazione negli sport outdoor, in questi anni ha trovato il tempo di concludere un paio di Ironman e qualche gara di mtb, maratone, sci di fondo e scialpinismo, oltre a metter su famiglia con Mirella che gli ha dato due figli.
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